“Faccio un film come in fuga, come fosse una malattia da scontare, insofferente e pieno di rancore guardo al film come a un malanno da cui liberarmi.
Come il sogno. Il sogno è anche espressione della nostra malattia anche se, come la malattia, è ricerca di salute.
Un film è per me veramente qualcosa di assai vicino a un sogno amico ma non voluto, ambiguo ma ansioso di rivelarsi, vergognoso quando viene spiegato, affascinante finchè rimane misterioso".
“Sono costretto a esercitare una presenza mentale costante, se voglio sostenere l’insieme dell’edificio. Non posso permettermi un attimo di distrazione, altrimenti l’equipe lo avverte subito, si perde la concentrazione e il lavoro si sgretola. Devo essere al centro della loro attenzione e della loro vita. Se il transfert viene interrotto il film non può proseguire. E’ come se fossi un domatore di belve: alla minima distrazione da parte mia, sfuggono al mio controllo e il film non esiste più"”.
Fellini, La mia Rimini, a cura di Mario Guaraldi e Loris Pellegrini, Guaraldi 2003, p.354. E' un brano che torna in questo archivio, come una ossessione, sulle ragioni del fare non solo un film, ma qualunque opera artistica, che sia necessaria all'autore e poi ad altri, ossessione faticosa, dispendiosa, incompresa, infondo al buio. Nell'immagine il disegno di un uomo ed umanita' che nasce e muore entro un utero, senza crescere, senza diventare adulto, una di quelle creature monche, zoppe, gobbe, cieche di cui Fellini sentiva il terrore almeno fino alla sua terapia. Infondo alla paginetta trovate uno spazio fatto apposta per farci sapere di essere passati anche voi da qui, e ce' anche il modo per ripubblicare questo post, con altri ricercatori spirituali.
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