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Eravamo maghi bambini


Cosa avete fatto per davvero?
 "Quello di fare qualche cosa di poetico che possa tener compagnia alla gente. Lui diceva che eravamo maghi bambini".
Cosa le manca di Fellini?
"Vede, tanto si dice che manca sempre tutto, perché è una grande amicizia e poi è questa montagna di memoria, questi continui suggerimenti di vivere camminando un po' sollevati da terra, i nostri colloqui nel suo studio, dove lui amava restare, non era un amante dei viaggi, perché diceva "i viaggi li facciamo con la memoria", era stupendo sentir parlare dei suoi viaggi verso l'infanzia e dei suoi viaggi verso paesi che non aveva mai visto e che aveva l'impressione di vedere stando fermo".
Che cosa legava Fellini a Rota?"Bah... è come se mi chiedesse qual è il segreto per fare una buona polenta oppure qual è la cottura giusta della pasta, che se si sbaglia di un attimo... è un odore, il segreto è che andavamo incontro a un odore".
Come lavoravate?"Nella nostra vita non avevamo delle cose mostruose per inventare parole o immagini. Eravamo persone che stavano pensando a un piatto di spaghetti e alla mortadella!"
E l'amore?"
No! L'ultima frase Fellini la disse a Enzo Biagi negli suoi ultimi giorni: stava morendo e diceva 'innamorarsi ancora una volta!Nella vita quello che conta è diventare questa nuvola imprecisa e grandiosa che è il momento dell'amore".


Tonino Guerra 
risponde a qualche domanda
ricordi, tutto tratto da qui

QUALCHE DETTAGLIO PRATICO PER ANDARE AVANTI:   
Dove ho potuto ho citato la fonte. Fatelo anche voi, questo è un lavoro autoriale, protetto dalle leggi del copyright, nella Unione Europea, ed ospitato su Google. Le immagini non sono mai o quasi mai legate ai testi, per motivi di stile e per le stesse ragioni invece quando uscite dal sito dovete ritornarvi da voi: se trovate un link esterno rotto vi prego di avvisarmi. Se il brano è mio, raro, viene indicato anche nelle tag, come "la nana di fellini". Trovate qualcosa su Twitter, in inglese. L'archivio funziona come una mappa mentale, cercate da soli, attraverso la semantica poetica che trovate alla vostra destra.
Qui un marcetta "di Carlotta", composta pare, dal vero Maestro Rota. Ringrazio commossa. 








Eravamo tutti provinciali



[...] Lo incontravi, anche di recente, e diceva ' Ti ricordi quel Pierdominici che conoscemmo quella volta? Beh, è andato sotto un tram...' e continuava con dettagli commoventi e suggestivi. E non era vero niente. 

La cosa più bella era proprio che, anche a distanza di 50 anni, lo ritrovavo uguale, le stesse meravigliose bugie, lo stesso linguaggio di sempre, forse un po' meno spontaneo. Però lo ritrovavo sempre e in questo era unico, perché la gente che diventa famosa si trasforma, parla diverso, cambia dentro [...]


[...] La nostra amicizia non aveva niente a 

che vedere con il lavoro. Ci vedevamo alla latteria di via Frattina. 

C' erano Steno, Marchesi, Metz e vicino c' era l' antiquario Apollonio, dove vedevamo De Sica e i personaggi famosi. Allora Roma si girava a piedi, da piazza del Popolo a piazza di Spagna era uno scherzo. Facevamo notte passeggiando, parlando di tutto. Nelle soste al ' Café de Paris' a via Veneto, c' erano Patti, Talarico, Flaiano, a volte veniva Ungaretti. Era un tavolo dove ci si arricchiva d' impressioni, di modi di dire, di opinioni.

[...] Eravamo tutti provinciali, cresciuti nella stessa aria. Trastevere, dove sono nato, era provincia, e quando andavamo al centro o a piazza del Popolo dicevamo ' andiamo a Roma' . Ostia, in fondo, era come il lungomare di Rimini. Roma stessa era un paesotto, poco illuminato, i lampioni avevano la retina. Ricordo l' impressione che mi fece Milano quando andai, a 15 anni, per incidere un disco per bambini, con il Duomo tutto illuminato che sembrava New York. Quando ho visto Roma, ho ritrovato tutto il clima e le chiacchiere di allora. C' era la realtà deformata, dipinti estrosi, donnone, nani, monache, preti, tutto ricostruito, ma c' era lo spirito di Roma, che aveva assimilato allora. Roma lo aveva catturato, tant' è vero che non si è mosso più.




[...] Fui proprio io a spingere Federico a fare Lo sceicco bianco. Avevo capito che il mio personaggio doveva essere un animale, uno che sui fumetti faceva sognare e nella vita era una bestia, neanche sapeva parlare. Erano tanti i personaggi così - e ce ne sono anche oggi - e sul set li restituivo a Federico così come li avevo conosciuti. Lo sceicco bianco andò malissimo, a Venezia ci fu anche il boicottaggio degli editori di fumetti e fu un disastro [...] 


[...] Dopo il viaggio di nozze mi venne a trovare. Stavo al Galleria, presentavo uno spettacolo d' arte varia a cui partecipavano ospiti come la Magnani e Fabrizi. Vidi entrare Federico. Feci fermare l' orchestra e dissi al pubblico: ' E' arrivato un amico, si chiama Federico Fellini, è un umorista, collabora al Marc' Aurelio. Si è sposato con Giulietta Masina, una brava attrice che avete sentito alla radio come Pallina. Io non sono andato al matrimonio perché stavo qui e vi chiedo di aiutarmi a fargli un dono, che mi costa pure poco, vi chiedo un applauso. E Fellini, emozionato, ricevette il suo primo applauso [...] 


[...] I vitelloni  (che all'estero vollero chiamare gli "inutili", i fannulloni) nacque con la collaborazione di tutti. I barattoli, l' episodio delle diecimila lire - ti butteresti se ti dessero 10 mila lire? - e i lavoratori erano tutte cose vissute. 


Quello dei lavoratori mi era successo una volta che, uscendo in una macchina scoperta da via Frattina dove c' era una sala di doppiaggio, passai davanti a un paio di operai che lavoravano con il martello pneumatico. Gli gridai ' State a giocà, eh? Perché non lavorate un po' ? e me ne andai sgommando. A piazza Mignanelli c' era un ingorgo e, fermo, vidi dallo specchietto gli operai che mi erano corsi appresso. Riuscii a ripartire appena in tempo. Dopo la proiezione, anche quel film and  male, uscirono tutti zitti, a testa bassa. 
Rimanemmo io e Federico seduti sul marciapiede, esterrefatti. ' Non gli è piaciuto. Tu che ne dici?' . ' 
E che dico, Federì? Non domandà a me, me pare bellissimo...'  [...]


intervista con Alberto Sordi, all'indomani della morte di Fellini. Raccolta da Maria Pia Fusco, per la Repubblica, 2 novembre 1993. 

Il satiro qui
Il film fu un insuccesso commerciale. Pero', almeno, se lascerete un messaggio (hanno predisposto uno spazio vuoto in basso, come fosse un fumetto da riempire come volete: poi ci sono anche i pulsanti per condividerlo con chi amate) allora farete sapere che anche voi siete passati da qui. E se quello che c'e' scritto qui vi riguardasse in qualche modo, bhe, non si sa mai cosa potrebbe accadere.






Nino gnome

Di nicchia. 
Audio su Nino Rota, magnifico elfo e grande conforto spirituale ed artistico di Federico Fellini Qui.

Nino Rota raccontato dal collega  Piovani che prese il suo posto, alla sua morte, invece lo trovate Qui.






Proteggete la conoscenza, condividete questo post, con chi amate preferibilmente, i pulsanti sono in basso, e se lascerete un messaggio farete sapere che anche voi siete passati da qui. 







Il giudizio Universale




 

A Tabucchi La dolce vita appare un «grande affresco sull’Italia fra gli anni Cinquanta e Sessanta». Nel corso di una intervista Tabucchi lo definisce praticamente una sorta di giudizio universale privo di salvezza. Dove ogni classe sociale (e l'umano vacilla sotto la pressione delle classi e del sociale) è condannata:  «in fondo - dice Tabucchi - l’Italia non ha mai avuto una borghesia intelligente, colta... Poi c’è la piccola borghesia, il padre di Marcello che arriva a Roma dalla provincia e vuol fare la notte di follie al tabarin: un disastro. Un personaggio toccante, patetico. E patetica è anche Yvonne Furneaux, la “moglie italiana” con le sue fissazioni, possessiva e disperata per quel voler accudire Marcello, preparargli i ravioli con la ricotta. Ecco poi i nobili, l’aristocrazia romana che si raduna per la festa nel castello di Sutri: una galleria di inetti o di puri deficienti. Ma c’è anche il popolino, il sottoproletariato, quello che spera nelle apparizioni della Madonna e si presta alle riprese della Tv. Il cerchio si chiude con gli intellettuali; c’è Marcello Rubini (Mastroianni), il giornalista che vuol diventare grande scrittore e intanto lavora per una rivista scandalistica: crede di avere importanti aspirazioni, e invece è solo patetico. Più in alto, molto più in alto c’è Steiner (Alain Cuny), una mente raffinata, nutrita di cultura filosofica e di letture scelte, suona Bach. Ha un salotto frequentato da scrittori e artisti, a cui fa ascoltare la registrazione dei suoni della natura. Ma ha anche una famiglia, due bimbi, la moglie sorridente: insomma, sembra un esempio perfetto di equilibrio e serenità. E invece è un fallito, e il suo suicidio cambia radicalmente il giudizio su tutto: quelle riunioni di intellettuali che parevano tanto scelti, tanto profondi, erano solo poveri ricevimenti di persone vuote e fatue.
Insomma, La dolce vita è il ritratto più terribile che un artista abbia prodotto sulla società italiana. Profeticamente, Fellini aveva già intuito dove saremmo andati a parare. Il modo con cui rappresenta i mezzi di comunicazione di massa è rivelatore. I fotografi scatenati e urlanti dietro le celebrità, i giornalisti che s’inventano stupidi scoop (Anita Ekberg vestita da prete che sale sulla cupola di San Pietro), gli scatti rubati della diva presa a schiaffi dal suo compagno, la spettacolarizzazione del niente. E la Tv? Anche peggio: la sequenza del finto miracolo sui pratacci dell’ultima periferia romana è atroce. Due bambini che dicono di aver visto la Madonna attirano la troupe della Rai, che vuole dare di tutto, di più. In mezzo a una falsa agitazione, tutti recitano: i piccoli veggenti, la folla pronta ad andare in estasi, lo zio orrendo dei ragazzini che intona le laudi, lo speaker della Tv. Poi, comincia a scendere la pioggia, di Madonne nemmeno l’ombra, e l’operatore cinicamente esclama: “Piove! Spegniamo tutto”. Un’Italia orrenda degli inizi degli anni Sessanta, Paese corrotto e decadente, terra in cui niente si salva né può essere salvato, società putrefatta come la Roma del Satyricon di Petronio […] Ci sono tutti i difetti italiani, quel viver bene alla giornata, il cinismo generale che accomuna sottoproletari, intellettuali, borghesi. Il velleitarismo del giornalista Marcello è desolante: il suo dialogo con Anita Ekberg, nella scena della fontana, è agghiacciante. “Sì, è vero, ho sbagliato tutto, hai ragione tu...” e va nell’acqua dietro alla bionda formosa e cretina che s’inebria nel primordiale, nell’arte, nella romanità di quel tuffo barocco di Trevi. E altrettanto tremendo è l’episodio del miracolo della Madonna. Speriamo tutti, anch’io, di vedere la Madonna, ma la Madonna di quelle borgate non ci promette la vita eterna, tutt’al più una vacanza a Fregene. Si lascia comprare con quattro soldi, costa due lire, non era l’apparizione felice, immortale, era una povera cosa di cartone»


Qui si trova traccia di Imago  - L’IMMAGINARIO DI FEDERICO FELLINI,  docu-film di Alessandro De Michele e Leopoldo Antinozzi con interviste  inedite di Padre Angelo Arpa, lo psicanalista Mario Trevi amico di Fellini, lo sceneggiatore Tonino Guerra, lo scenografo Rinaldo Geleng; il segretario  Enzo de Castro e Norma Giacchero, la segretaria di edizione, l’attrice Olimpia  Carlisi, lo scrittore Gianfranco Angelucci, il poeta Andrea Zanzotto e il latinista Luca Canali. 

Proteggete la conoscenza, condividete questo post, se usate questo lavoro rispettate le fonti. Le immagini non sono legate da alcun simbolismo, ma casuali, e spesso sono della curatrice, quando non di Google. A destra la mappa semantica. 


Su di lui so di poter contare sempre



Ma c' è una verità che mi sta molto più a cuore e che vale molto di più per me, ed è che l' incontro con lui mi ha regalato la vera amicizia, quella rara e preziosa di un fratello maggiore ideale, più intelligente, più profondo, più sensibile di me. Un fratello che mi vuole bene, con il quale posso dire tutto, che è capace di capire tutto senza giudicare. Su di lui so di poter contare sempre [...]  Federico mi ha raccontato il momento del ritorno alla coscienza. Ancora vago e confuso, stava immobile a terra e la prima cosa che vide fu un paio di scarpette nere come Topolino, le calzette su due gambe infantili. Era un bambino. Federico chiese aiuto, gli disse di andare a cercare qualcuno che potesse aiutarlo. Il bambino lo guardava, stava zitto e continuava a guardarlo. Federico continuava a chiedere aiuto e, finalmente, il bambino parlò. In tedesco. E vaffà ' n culo, pure il bambino tedesco! Abbiamo riso e io gli ho ripetuto che come inizio di film sarebbe stato meraviglioso. ' Perciò te l' ho raccontato' , ha detto lui. ' Va bene, mi sa che mi tocca tornare a lavorare con te!' .  [...] [...] La magia di lavorare con Fellini è che con lui sei contemporaneamente due cose ugualmente esaltanti: sei attore e spettatore.


Da un'intervista rilasciata al telefono, il giorno dopo la morte di Fellini (Repubblica). Mah. 







Una 500 a via Gregoriana


Pubblico una breve conversazione con il regista Vittorio De Seta, a proposito delle proprie radici junghiane, che va fuori tema, ma non troppo, dato il grande peso che per un artista ha la ricerca interiore, e la capacita' di vedere e di creare. Dove si scoprono alcune cose della loro breve amicizia, della 500 bianca, erano giovani davvero, per il resto della sua vita Fellini non guido', e della casa di produzione affidata a Fellini che fece molti guai. Ma  soprattutto si racconta di  Ernst Bernhard che fu lo psicoanalista di entrambi. Si dice che il film Giulietta degli Spiriti (ed in effetti la sceneggiatura lo riporta, ma i titoli di testa e coda no) fosse dedicata proprio al suo psicoanalista e vederlo ne da' conferma a chiunque abbia passato un poco di tempo da quelle parti ... Non sarebbe dunque Otto e mezzo il vero film della psicoanalisi, ma solo di una fase, la fase dello stappo, ma Giulietta, dove in effetti si racconta un'intimita' realista alla biografia almeno sentimentale di Fellini, e dove alla fine si apre una porticina proprio sull'inconscio che porta alla (propria) liberta' ... 



Amedeo Caruso: – Lei è stato fra i primi artisti ed intellettuali a conoscere e frequentare Ernst Bernhard. Vuole parlarmene?

Vittorio De Seta: – Lo conobbi nel ’58. Avevo un fratello maggiore, Emanuele che tra il ’56 e il ’58, fu incarcerato e processato per reati di droga. Piuttosto ingiustamente. Ne uscì psicologicamente malconcio. Era instabile, aveva subito traumi in guerra. Lo ospitai per mesi. Uno psicologo incaricato dal tribunale suggerì una psicoterapia. Bernhard venne a casa mia, a Roma, all’Aventino. Sconsigliò un’analisi. La “psicoanalisi” era considerata allora, qui da noi, una scienza esoterica, scientificamente dubbia, tenuta in poco conto, osteggiata dalla Chiesa, dal partito comunista. Tuttavia quel dottore mi colpì. Avevo anch’io problemi psicologici.

Entrò allora in analisi con Bernhard?
Si, analizzavamo i sogni, parlavamo. Cosa insolita, prese in cura anche mia moglie. Ricordo che un giorno, in un momento di tensione, andammo da lui, per aiuto. Ci ricevette senza quasi parlare, preparò un thè e quando tutto fu pronto ci guardammo, con mia moglie: ogni contrasto era svanito. Questo era Bernhard. Faceva in modo che alle conclusioni si arrivasse da soli. Nel 1960 m’incoraggiò, mi “autorizzò” a fare Banditi a Orgosolo. Interrompemmo l’analisi per un anno.

È noto che è stato proprio lei a far conoscere Bernhard a Fellini. Com’era il suo rapporto con l’autore de La dolce vita?
Dopo il successo di quel film, il produttore, Rizzoli, finanziò la “Federiz”, una casa di distribuzione, affidata a Fellini, con l’intento di favorire il cinema d’autore. Aprirono una sede sontuosa in via della Croce. Ma non funzionò. Fellini, a causa del suo genio, particolare, non riusciva a badare al lavoro degli altri. Non aveva la pasta critica, cinefila, di un Pasolini, un Truffaut, uno Scorsese. Fra l’altro aveva un collaboratore, regista anche lui, al quale non andava bene niente. In poco tempo riuscirono a bocciare Il posto di Ermanno Olmi, Banditi a Orgosolo, già fatti, e Accattone, di Pasolini, pronto per le riprese. Ciononostante diventammo amici. Un giorno eravamo nella sua “500” bianca – che decisamente ci stava stretta, eravamo grossi tutti e due – in un piccolo largo, sopra il Tritone. Ci mettemmo a parlare e lui diede fondo al suo malessere, proprio come si fa con le persone conosciute da poco. Davanti a noi si apriva la prospettiva accattivante di via Gregoriana, dove abitava Bernhard. Un segno del destino? Ricordo come fosse adesso. Mi venne spontaneo dirgli: “Perché non vai da Bernhard?”. 
Ci andò in capo a qualche giorno.

Forse “Otto e mezzo” ebbe inizio proprio lì…
Non c’è dubbio, l’analisi ha avuto un effetto determinante su lui. In seguito ebbi tempo di riflettere. Con La dolce vita, aveva tirato fuori tanti contenuti inconsci e se li era trovati davanti, ancora segreti, dolorosi, insidiosi. Per questo stava male.

Vi siete frequentati in seguito,  avete avuto modo di parlare del vostro comune analista?
Questo no, sarebbe stato imbarazzante. Non ci siamo quasi più frequentati perché non riesco a coltivare le amicizie. Non sono mai andato a Fregene. Fellini era un incanto, ti avvolgeva d’attenzione, simpatia, affetto. Poi, da quel momento, tutti e due lavorammo ad un film d’autoanalisi. Non ce lo siamo mai detto. Ci siamo persi di vista.

Sente di aver creato un film – Un uomo a metà – che rappresenta in un certo senso l’ombra di “Otto e mezzo”?
Oddio, che s’intende per “ombra”? Lo diciamo in senso junghiano? Certo che il mio film è stato l’ombra dell’altro, nel senso che Otto e mezzo ha riscosso un successo mondiale, visto da milioni di persone, vinto premi, riconoscimenti, mentre Un uomo a metà è stato distrutto dalla critica, apparso fugacemente nelle sale, insomma, ricoperto d’obbrobrio. Solo Pasolini e Moravia e pochi altri l’hanno sostenuto. Tuttavia a distanza di 40 anni viene ancora proposto. L’anno scorso l’ho rivisto negli Stati Uniti. Ci saranno state 500 persone, (e lì quasi tutte hanno fatto l’analisi), ma alla fine, mi è sembrato, ha suscitato ancora imbarazzo, disagio. È un film casto, eppure in Francia, nel ’67, la censura l’ha vietato ai minori di 18 anni. Che dire? Mi piacerebbe parlarne con Fellini. Certamente mi aiuterebbe a capire. Ma non ha molto senso chiedere a un autore un giudizio sulla sua opera, su quella degli altri. Un film è un tessuto fitto di sentimenti, pensieri, intuizioni. Perché tentare di sezionarlo col bisturi della cosiddetta “ragione”? Vorrei dire solo due cose: Un uomo a metà non è consolatorio e – come gli altri miei lavori – è un “film della realtà”, sia pure psichica.





Sono passati molti anni, cosa le è rimasto, quanto ha influito sull’uomo, sul regista De Seta, l’esperienza psicoanalitica? Pensa che sia stata decisiva per il suo percorso umano e professionale? Crede che il suo ultimo film, Lettere dal Sahara, risenta del lavoro con Bernhard?
Certo, l’influenza della psicanalisi è stata decisiva. Mi ha tirato fuori dal marxismo, dal materialismo. Con l’influenza junghiana ho riscoperto il senso del mistero, mi sono avvicinato alla religione. Mi è sembrato di tornare alla fede. Ma non ero soddisfatto, c’era qualcosa che non andava, non riuscivo a rinunciare alla ragione. Infine sono stato aiutato in modo decisivo dai saggi morali e religiosi di Tolstoj. Vede, è stato un percorso continuo. In sostanza non ho fatto i miei film dopo aver capito le cose, li ho fatti per comprenderle. Non mi sono mai specializzato. I film più che un fine sono stati un mezzo, (per questo sono pochi e diversi tra loro). Ma non vorrei prendermi troppo sul serio. È per dire che proprio il dinamismo, il coinvolgimento continuo, in prima persona, mi hanno impedito di naufragare nel nichilismo. Certo che il mio ultimo film Lettere dal Sahara risente del lavoro con Bernhard. Lui ha segnato la mia vita, in modo decisivo.
Che rapporto ha oggi con la sua vita onirica?
Non sogno più, o almeno non ricordo i sogni. Giorni fa finalmente ne ho fatto uno. L’ho trascritto ma non ho tentato di interpretarlo, come facevo una volta. Mi dispiace.

 
Questo a
rchivio funziona come una mappa mentale, per associazioni libere, cercate da soli: le immagini solitamente non sono legate ai testi, mentre sempre i link esterni restano esterni, per rispetto della cultura digitale, che questo piccolo spazio testimonia; poi lasciate una traccia del vostro passaggio qui, se volete. 



Una mente lisergica



Non so molto di Castaneda.  Ma ho in archivio alcuni suoi libri, frutto appunto degli studi di Federico Fellini.  Tanto gli interessava che penso' perfino di fare un viaggio oceanico, lui che non aveva mai lasciato ne' Rimini, ne' Roma ne' lo Studio 5 di Cinecitta'. Fellini decise infatti di girare un film su Carlos Castaneda,  tratto da A scuola dallo stregone, libro del 1968  di culto per gli hippies, i new age, gli artisti, i seeker spirituali ed i curatori magici, allora e forse anche oggi. Volò in America insieme al giovane Andrea De Carlo, di cui aveva ammirato il romanzo Treno di panna, caldeggiato da Italo Calvino, e per questa ragione molto letto anche a casa mia, in compagnia di una bionda astrologa americana, e di Vincenzo Mollica. Il viaggio fu pieno di presagi, messaggi, telefonate, appuntamenti mancati, e fatti stranissimi, che alla fine angosciarono Fellini


La pubblicazione della storia di questo ennesimo film che non venne mai realizzato (ma trovate in forma di libro), avvenne solo in forma di tentativo, di risarcimento, di testimonianza, in 6 puntate nel maggio dell'86, a fumetti, illustrato da Milo Manara e mai ristampato.
 Andrea De Carlo  che ne fece un libro romanzo alla fine, racconta la sua versione dei fatti, in un documentario realizzato da Eugenio Cappuccio e Vincenzo Mollica, per la Rai e qui in un'intervista: "Purtroppo quel viaggio ha finito per guastare la nostra preziosa amicizia. Siamo rimasti entrambi imprigionati dall'orgoglio, incapaci di sbloccare la situazione. Ho ancora il rammarico di non avere compiuto il primo passo per venirne fuori" racconta, con rimpianto. Infatti la storia che Fellini non ebbe il modo di realizzare non si sapeva di chi era, e il fatto che De Carlo, pare chiedendo perfino permesso, la scrisse, concluse il loro rapporto. 

Il brano in cui Fellini racconto' la sua esperienza lo trovate invece sotto altre sembianze qui: 
"... i concetti di volume, colore, prospettiva, sono un modo d'intendersi con la realtà, una serie di simboli per definirla, una mappa, ed era proprio questo rapporto intellettuale che veniva a mancare. 
Come quella volta che per far contenti dei medici amici che stavano studiando gli effetti dell'LSD, accettai di fare da cavia e bevvi un mezzo bicchiere d'acqua dove dentro era stata lasciata cadere un'infinitesima parte di un milligrammo di acido lisergico. Anche quella volta la realtà degli oggetti, dei colori, della luce, non aveva più alcun senso conosciuto. 
Le cose erano se stesse, sprofondate in una grande pace luminosa e terrificante. In momenti come quello le cose non ti pesano; non vai a bagnare tutto con la tua persona, come un'ameba. 
Le cose diventano innocenti perchè togli di mezzo te stesso; una verginale esperienza, come il primo uomo può avere visto vallate, praterie, il mare. Un mondo immacolato che palpita di luce e di colori viventi col ritmo del tuo respiro; tu diventi tutte le cose, non sei più separato da loro, sei tu quella nube vertiginosamente alta nel mezzo del cielo, e anche l'azzurro del cielo sei tu, e il rosso dei gerani sul davanzale della finestra, e le foglie, e la trama fibrillante del tessuto di una tenda. 
E quello sgabello davanti a te che cos'è? Non sai più dare un nome a quelle linee, a quella sostanza, a quel disegno, che vibra ondulando nell'aria, ma non ti importa, sei felice così. Huxley ha mirabilmente descritto questo stato di coscienza provocato dall'Lsd: la simbologia dei significati perde senso, gli oggetti sono confortanti per la loro gratuità, per la loro assenza-presenza; è la beatitudine. 
Ma improvvisamente essere tagliato fuori dal ricordo della mediazione concettuale ti fa sprofondare in un abisso d'angoscia insostenibile; di colpo quella che un attimo prima era l'estasi ora è l'inferno. Forme mostruose senza senso nè scopo. Quella nube schifosa, quell'atroce cielo azzurro, quella trama oscenamente respirante, quello sgabello che non sai che cos'è, ti strangolano in un orrore senza fine."



A seguire qui ripubblico invece un  breve resoconto affine forse alla vicenda messicana, e di esperimenti lisergici di Fellini, tratto dalla Repubblica dell'epoca:


"Era o non era il mago di Rimini? Era o non era il più grande visionario del cinema italiano? 
Può allora sorprendere che un Federico Fellini quarantenne acconsentisse ' a farsi impasticcare di Lsd' dall' amico scienziato in vena di alchimie cerebrali?  Le agenzie di stampa, ieri pomeriggio, ne hanno enfatizzato la notizia. 
Era l' epoca della beat generation, Jack Kerouac aveva appena pubblicato in America On the road e lo scrittore Timothy Leary andava intonando peana liberatori sull' acido lisergico. Volle provarlo anche Fellini, sotto controllo medico. Parlò per sette ore di seguito e camminò su e giù per la stanza senza fermarsi mai. Emozioni, poche. Delusione, tanta. E non poteva essere altrimenti. 
Una pasticca d' acido per Fellini è come un caffé doppio per un ansiogeno. Perchè, dunque, dare tanto risalto all' evento, quando ne aveva già scritto lui stesso nel volume autobiografico Fare un film (Einaudi)? 
La risposta è in un libriccino dalla copertina gialla appena arrivato in libreria. S'intitola Imago. Appunti di un visionario (edizioni Semar), e porta la firma di Toni Maraini, scrittrice e storica d' arte (e sorella minore di Dacia). Il volumetto contiene una conversazione-intervista inedita con il regista. 
"Il contatto telefonico con Fellini non lo avrei mai avuto", racconta Toni Maraini, "se Alberto Moravia, con le sue maniere benevole e brusche, non avesse telefonato a Fellini per dirgli che mi conosceva da quando ero ragazzina, e che era sicuro che non lo avrei seccato con domande inutili". 
Era il marzo del 1990, una giornata fredda e ventosa. Bastò il nome di Krishnamurti per accendere la fantasia di Fellini. La magia, i poteri paranormali, le atmosfere sovrannaturali l' avevano sempre attratto. La sua affabulazione copriva argomenti di registro vario, elevandosi dal mago Rol, prodigioso fenomeno di parapsicologia, a Carl Gustav Jung, la sua stella polare, il maestro che più gli aveva insegnato "a recuperare tante energie sepolte sotto le macerie di timori, inconsapevolezze, ferite trascurate". 
La sintesi perfetta tra razionalità e fantasia, scienza e magia. Fellini tracimava lieve attraverso ricordi, sogni e profezie, e la Maraini registrava. 
Finché un giorno il regista le raccontò dell' amico scienziato che l' aveva persuaso, dopo aver girato Otto e mezzo, a sperimentare l' Lsd. Poi se ne pentì. La chiamò al telefono, e le chiese di cancellare la registrazione. 
Perché tanto pudore, tanta riservatezza?. "Temeva di non essere compreso", risponde oggi Toni Maraini. "Fellini era abitato da un' acuta, nostalgica, malinconica, scherzosa e sensuale curiosità per gli esseri e le cose. La tentazione dell' Lsd rientra in questo quadro. Ma in fondo non era stata un' esperienza significativa. Fellini aveva conservato pochi e incerti ricordi. In un certo senso, si trattò d' una rimozione, tant' è vero che non volle mai ascoltare la registrazione di quel che mi disse quel pomeriggio". 




Il disegnatore Milo Manara, che con Fellini ha collaborato in più lavori, suggerisce una diversa chiave: 
"Federico era rimasto deluso. L' allucinogeno non gli aveva certo dischiuso panorami nuovi e insospettabili. Il suo bagaglio immaginativo era tale che una pasticca d' acido poteva far poco. Una volta, scherzando, mi confessò che la sua vita emotiva ordinaria era assai più intensa". 
Per Manara si trattò di una storia grottesca: "L' iniziativa partì da un' équipe medica che voleva sondare le potenzialità espressive dell' acido in una mente immaginifica come quella di Fellini. Una sperimentazione che oggi può sembrare comica, ma allora era giustificata dai miti della beat generation"
Alla figura di Manara è legato l' altro episodio "rimosso" della vita di Fellini: Viaggio a Tulum, il misteriosissimo film ispirato dai racconti del leggendario ' antropologo stregone' Carlos Castaneda e mai realizzato (Viaggio a Tulum diventerà un fumetto firmato da Manara).  "Fellini", racconta Toni Maraini, "volle censurare tutti i dettagli bizzarri del viaggio da Los Angeles a Tulum, in Messico, dove era andato per girare il film tratto da Castaneda. 
Mi disse che c' erano troppi misteri: eventi inquietanti e minacciosi più che seducenti e meravigliosi. Fellini amava il meraviglioso e s' interessava di fatti paranormali, ma non di magia nera, ed era infastidito dai tenebrosi risvolti di tutta quella storia: biglietti che apparivano dal nulla, telefonate misteriose, parole sussurrate, apparizioni inattese di Castaneda il quale, alla fine, scomparirà nel nulla!". 
Disse una volta Fellini: "Quanto più l' enigma è indecifrabile, tanto più c'è l' obbligo di suggerire una spiegazione". 
Allora forse non ne fu capace, e il film non lo fece.



Oltre alla intervista della collega Simonetta Fiori, per La Repubblica, 1994, e della collega Marain, in questo post ho accumulato altre cose. Su Tulum e il non-incontro con Castaneda trovate un folle e personale documentario, "Fine Mai" di Vincenzo Mollica ed Eugenio Cappuccio, del 2019, molto bizzarro e sgangherato, dove questa vicenda viene per accenni ripresa. QUI il trailer.  
Accanto il fumetto di Manara. 
 

Tutte le altre immagini sono prese dal film Giulietta degli Spiriti in cui proprio i colori, e le scenografie trasmettono questo senso di materica magia del colore, e trasformano gli oggetti ed infondo hanno qualcosa di lisergico. Ne parla Fellini a lungo, e trovate cercando (colore, Giulietta, surreale, angoscia, Fellini non ama viaggiare, per esempio) nella colonna di parole-chiave di questo archivio, che serve a fare libere associazioni, come foste dentro una mappa mentale. Scrivete un messaggio o condividete il post. I link sono esterni, invece, le fonti citate, rispettatele, le foto spesso della curatrice. Grazie. 



Stanotte che hai sognato?





Scombiccherato collage di interviste a Dante Ferretti, scenografo maceratese, in gloria con la moglie negli Stati Uniti, uno degli ultimi, per generazione tra i collaboratori, con Danilo Donati, di  Federico Fellini, in uno dei ruoli piu' significativi nel suo staff, quello, anche controverso, nascosto, di scenografo. Insomma il solo a dire qualcosa, oltre a Fellini, sulle immagini ed i colori. Non poco. 



Dico spesso che Pasolini è stato il mio mentore, Fellini il mio mentitore. A Federico piacevano le bugie, si inventava storie, era un gioco per lui e tentavo in tutti i modi di imitarlo. Mi chiedeva sempre cosa sognavo la notte e io, che non ricordo mai niente al risveglio, mi inventavo delle storie. Sapeva benissimo che erano bugie ma si divertiva, c’era una grande complicità. Forse perché sono nato nelle Marche e quella provincialità ritratta nei suoi film l’ho vissuta, certe cose, nonostante i 30 anni di differenza d’età, riuscivo a capirle bene. E’ stato un lavoro straordinario ma sempre divertente e allegro.

Io sono nato a Macerata e in una città così piccola l’unica cosa bella è che c’erano quattro cinema e altre quattro sale delle parrocchie. Il primo film che ho visto, a 6 anni, fu I ragazzi della via Paal, nella sacrestia di una chiesa vicino a casa mia. Da quel momento il cinema divenne una fissazione, volevo sempre andarci. Al pomeriggio, finita la scuola, dicevo a mio padre che andavo a studiare in casa di amici. In realtà gli rubavo … diciamo che mi appropriavo dei soldi che teneva in tasca e correvo a vedere i film. Se mi piacevano, li guardavo anche due volte o tre consecutive, oppure mi infilavo in una sala al primo spettacolo e in un’altra al secondo. Io studiavo all’istituto d’arte e un giorno decisi che volevo fare il cinema. Mio padre rimase sbigottito e mi chiese con un risolino se volevo diventare attore, però a me piacevano le costruzioni e le scene, anche se non sapevo neppure come si chiamasse questo lavoro. Ricordo che un giorno uno scultore abbastanza famoso di Macerata, Umberto Peschi, mi spiegò che dovevo diventare scenografo. Pensai: ecco quello che voglio fare da grande. Dopo l’Accademia delle Belle Arti, ho avuto l’incredibile fortuna di diventare l’aiuto scenografo di Luigi Schiaccianoce che mi presentò molti registi. Mentre lavoravo a Medea, di Pier Paolo Pasolini, incontrai Fellini a Cinecittà. Ricordo come se fosse ieri il suo modo di pronunciare il mio nome. ‘Dantino, vorrei che tu lavorassi per me insieme a Danilo Donati. Lui si occuperà dei costumi, tu delle scenografie’. Risposi che non ci pensavo proprio, perché le cose che andavano bene sarebbero state un merito suo, quelle sbagliate, colpa mia. ‘Dici di no ad un Fellini? - mi disse, giocando. Gli risposi di richiamarmi dopo dieci anni, quando sarei stato pronto per fare un film con lui.  
Sì, stavo girando con Elio Petri Todo modo e ci siamo incrociati sotto un lampione a Cinecittà. Quella volta, stranamente, era solo e mi disse: "Dantino, ciao, sono passati 10 anni e bisogna che lavori con me". 
Dopo qualche mese partimmo con La città delle donneProva d’orchestra e poi altri quattro film fino a La voce della luna.  L’ultimo film da aiuto scenografo è stato Satyricon di Federico Fellini, nel 1969. Da La prova d’orchestra fino a La voce della luna, ho fatto tutti i suoi film. Ho perso solo L’intervista perché ero sul set di Le avventure del barone di Munchausen. Un grande, il mio maestro e il mio mentore. Non c’è molto da aggiungere, anzi ci sarebbe troppo: lui, Pasolini e Martin Scorsese sono i tre che mi hanno dato di più. 
Con Pasolini ho girato otto film. Le sue inquadrature cominciano sempre con un grandangolo. Era come un Chaplin pittore: per Il Vangelo secondo Matteo, Mantegna; per I racconti di Canterbury, la pittura inglese e francese e Paolo Uccello; per Le mille e una notte, i miniaturisti arabi e persiani. Non amava gli interni, non gli piaceva lavorare in teatro. Ricostruivo fuori e facevo molti interventi per riportare l’ambiente all’epoca scelta. Girava con una raffinatissima semplicità, eliminando tutti gli orpelli.


La mediazione


Vedi, Angelo, questa Chiesa la possiamo e la dobbiamo criticare, per liberare delle tante possibili oppressioni, ma credo che dobbiamo essere anche molto onesti. L'uomo ha bisogno di una mediazione tra lui e il maestro. In questa ottica la Chiesa costituisce una grande e fortunata presenza. Capisci?. Una presenza che non si può eludere, la mediazione tra l'uomo ed il mistero. Il dramma e' quando la mediazione si fa mistero essa stessa. Allora si moltiplicano non solo le confusioni, ma anche le repulsioni .... 



Angelo Arpa

L'arpa di Fellini
edizioni Oleandro
pagina 136

NdR

Quel Vedi iniziale
non sa tanto di letterale 

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