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La Presenza sempre benefica


Nell’ufficio di Corso d’Italia, e prima ancora nello studio di via Sistina, Fellini teneva una piccola fotografia appesa sulla parete alle spalle della scrivania, ed era di Bernhard, tra i pochi angeli custodi che vegliavano silenziosi sulla sua vita e sul suo lavoro. Nel terzo cassetto in basso a sinistra dello scrittoio, chiuso a chiave e avvolto in un drappo di seta nera, conservava l’I King, il ‘libro delle mutazioni’, nella prima edizione Astrolabio rilegata in nero, che l’amico terapeuta gli aveva regalato. 
Nel suo sfrenato individualismo il regista rifiutava ogni paternità, sosteneva di non avere alcun debito di formazione, neppure con Roberto Rossellini che pure considerava il padre Adamo; e tuttavia ammetteva che se doveva riconoscere un’influenza nella propria vita, l’unica persona importante era stata Ernst Bernhard. E nella sua voce affiorava immutabilmente una impalpabile incrinatura. Sosteneva di averlo conosciuto per un equivoco, telefonando a un numero scritto su un foglietto che gli era venuto tra le dita nella tasca della giacca e credeva appartenesse a una ‘bella signora”. Dall’altra parte del filo gli aveva invece risposto una voce maschile dall’accento tedesco, che l’aveva invitato ad andarlo a trovare nella sua abitazione di via Gregoriana, spiegandogli che non esistono casualità ma coincidenze; e spesso le nostre azioni meno consapevoli ci indicano la strada da seguire. Federico l’aveva ascoltato, ed erano diventati amici.
Non è certo che il regista sia stato in analisi da lui, non nel senso di una frequenza preordinata di metodo freudiano; a quanto pare, s’era trattato piuttosto di un itinerario conoscitivo di impronta junghiana. Federico si recava da Bernhard come un oracolo da consultare. 
Tra i quaderni dedicati ai pazienti che il terapeuta custodiva con scrupolo, e che oggi sono conservati in Austria poiché finiti in mano alla sorella di Dora Friedlander, sua seconda moglie, non figurano fascicoli con sopra il nome di Fellini. 
Distrutti, scomparsi, mai esistiti? 
Può darsi che le loro conversazioni, per un certo periodo assidue (ne esiste traccia nei Diari in cui Dora annotava le confidenze del marito, la sera a letto, prima di addormentarsi), non rivestissero per Bernhard un vero carattere di psicoanalisi, ma rappresentassero piuttosto lo scambio fecondo tra due nature particolarmente creative. 
Da quanto potevo dedurre, Fellini non seguiva un rigido programma di appuntamenti, ma ricorreva allo psicologo quando si trovava in stati di incertezza o di difficoltà a prendere decisioni; oppure anche ne cercasse la preziosa consulenza per i film in cui si avventurava nel linguaggio specifico dell’inconscio, come in “Otto e Mezzo” e soprattutto in “Giulietta degli Spiriti” (l’amico morì nello stesso anno di uscita del film, 1965). In ogni caso Ernst Bernhard, anche dopo scomparso, continuò a rappresentare un insostituibile riferimento per tutta la vita; e quando Federico interrogava con religiosa compunzione il libro cinese de responsi, certamente era anche a lui che si rivolgeva.
Ernst Bernhard era stato allievo di Carl Gustav Jung a Zurigo, e il fondatore della Psicologia Analitica quando ne aveva bisogno di appoggiava alle sue approfondite conoscenze astrologiche e chirologiche. Nel 1936 per sfuggire alle leggi razziali di Hitler contro gli ebrei, si era trasferito a Roma; e nella sua abitazione di via Gregoriana, adiacente a Trinità dei Monti, aveva creato assieme a Dora, ancora sua fidanzata, un cenacolo importante di studi esoterici. Ne riferisce ampiamente Luciana Marinangeli in “Risonanze Celesti – L’aiuto dell’astrologia nella cura della psiche, uscito da Marsilio. L’editore Aragno ha pubblicato, a cura della medesima studiosa, “Lettere a Dora”, l’intero epistolario intercorso tra Ernst e Dora Friedlander nel corso dell’anno in cui lo psicanalista venne assegnato dal regime fascista al campo di internamento di Ferramonti, in Calabria, a 35 Km da Cosenza. Per aggirare il censore, i due corrispondenti si trattavano da cugini affettuosi (sembra che lo fossero molto alla lontana) e non mancavano di evidenziare in testa alle missive i propri crediti accademici, illudendosi che potessero valere come un possibile futuro salvacondotto.  Bernhard ne approfittava anche per disseminare abilmente nel testo rassicurazioni sulla propria posizione estranea all’ebraismo, da cui si era distaccato fin dal lontano 1925 abbracciando il cristianesimo.
Ernst era stato prelevato a Roma all’improvviso l’8 giugno del ‘40, due giorni prima dell’entrata in guerra dell’Italia, recluso in un primo tempo nel carcere di Regina Coeli e successivamente internato a Ferramonti, il campo di prigionia allestito alla meno peggio in una zona paludosa e malarica, dove si inviavano a morire i nemici del regime. Dora, l’innamorata che ne aveva condiviso il destino venendo con lui in Italia, era una persona estremamente fragile e per molti versi dipendente psicologicamente dal compagno; al quale era legata oltre che dall’amore anche dagli studi parapsicologici a cui si dedicavano insieme con identica passione. In non poche lettere si comunicano gioie, preoccupazioni e speranze disegnando i ‘glifi’ zodiacali, le quadrature, le congiunzioni. Entrambi interrogano affannosamente il cielo in cerca di presagi e di risposte; ma mentre Dora riversa in ogni investigazione uranica la sua angoscia, Ernst per rincuorarla e sostenerla, cerca sempre di decifrare negli astri un quadro positivo, in cui le difficoltà appaiano piuttosto foriere di cambiamenti a loro favore. Applicava per indole e per apprendimento la visione junghiana, e orientale, del mutamento propizio degli eventi, che tanto conquistò Fellini portato per criscarattere a rendere produttivi i contrasti. Il regista aveva Marte in Bilancia, credo che ciò significhi un’aggressività depurata dall’impeto cieco, più coordinata alla ricerca di un equilibrio anche nella istintiva bellicosità.
Bernhard aveva intravisto motivi di ottimismo nella figura del direttore del campo, il Comandante di Pubblica Sicurezza Paolo Salvatore definito da Renzo De Felice “afascista”; il quale “riuscì a dare alle leggi inique un’interpretazione conciliante mostrandosi leale e rispettoso verso gli internati.”
Intanto Dora, dalla sua adorata Roma che continua a immortalare “in meravigliose fotografie in bianco e nero”, riesce a inviare a Ernst “i cerotti, i francobolli, il chinino, la tiroxina, il paralume di carta, le focacce, il cioccolatino”. Lui l’ha salvata da una tendenza depressiva ereditata dalla famiglia di origine e “con le lettere dal campo riesce a impedirle una deriva psichica più grave”. Lei contemplando una sua foto gli bacia le mani: “Ti ringrazio, ogni ora, sempre e per sempre.” E’ intensamente conquistata da quell’uomo speciale che la Marinangeli descrive “alto e stempiato, dall’aria distinta, lo sguardo attento e benevolo, e una testa curiosa, a uovo.”Dora bussa a ogni possibile porta per liberare Bernhard dal campo di concentramento; ma sarà decisivo l’incontro con il famoso scienziato orientalista Giuseppe Tucci. Ernst l’aveva sognato senza ancora conoscerlo, cinque anni prima a Berlino: si trovava in una caverna attraversata da soldati nemici, chiedeva da mangiare e un militare gli offriva del latte; era “un italiano con un viso di indiano.” Ernst sarà miracolosamente liberato il 14 aprile 1941 e tornerà nella casa di via Gregoriana, rimanendo nascosto in una stanza semi murata, anche grazie alla complicità degli altri inquilini. Non cesserà mai di credere nella Divina Provvidenza, che definisce “la misteriosa Presenza sempre benefica.”
Il 5 maggio 1965, un mese e mezzo prima che Bernhard si spegnesse, Federico è visitato da un sogno premonitore riguardo alla morte dell’amico terapista e le parole che scrive hanno un tono disperato:
« “Amore  mio” (sottolineato) dico travolto dalla commozione, vorrei aggiungere altro ma temo che Bernhard possa notare nel mio dolore una sfumatura istrionesca, di compiacimento letterario».
Tre giorni prima della morte dello psicanalista, Federico annota nel libro dei sogni questa “visione ipnagogica”. La data è del 25-6-1965 e il regista chiama Bernhard “mio vero padre”:
«Violentissima sensazione di realtà. Ho udito lo schianto dei vetri. Ho fatto un balzo sul letto con la certezza che veramente qualcuno mi avesse lanciato un mattone (contro il parabrezza della mia auto)
Stavo missando Giulietta degli spiriti. Erano le 10 di mattina, una giornata di piena estate. Mi telefona da fuori Aluigi… – Hai saputo? – – Cosa? – Ieri sera è morto Bernhard! –
Sono corso a casa sua. La moglie sulla porta mi ha detto – Deve vederlo. E’ così bello! –
Sono entrato nello studio e molte cose erano come nel sogno che avevo fatto un mese prima. C’era un giovane vestito di nero, pallidissimo, bello un po’ effeminato, languoroso, funebre come molti giovani del sud. Era Antonio Gambino. Guardavo Bernhard che giaceva sul letto, che pace profonda, che serenità, l’aria attorno era limpida, profumata.
Vorrei poter vivere senza di te, vivere di te di ciò che hai saputo donarmi… Ti debbo moltissimo della mia vita. Ti debbo la possibilità di continuare a vivere con momenti di gioia. Ti devo la scoperta di una nuova dimensione di un nuovo senso di tutto, di una nuova religiosità… Grazie per sempre amico fraterno, mio vero padre. Aiutaci ancora spirito limpido, beato. Pace alla tua anima buona. Ricordati di noi, ti vogliamo tutti un bene dell’anima. Addio addio amico del cuore, santo uomo vero.»
Dopo la scomparsa di Bernhard, Fellini continuò a frequentare la moglie Dora, occasionalmente, in una decina di sedute che si esaurirono nel 1967.
Tramite un calcolo utilizzato dagli astrologi orientali per conoscere la durata della vita di una persona, Ernst già da molti anni aveva stabilito la data della propria morte, con un errore di soli otto giorni.
Chissà cosa il terapista aveva visto nel ‘cielo’ di Federico. 



(da Articolo 21, Gianfranco Angelucci, maggio 2019).  

Una 500 a via Gregoriana


Pubblico una breve conversazione con il regista Vittorio De Seta, a proposito delle proprie radici junghiane, che va fuori tema, ma non troppo, dato il grande peso che per un artista ha la ricerca interiore, e la capacita' di vedere e di creare. Dove si scoprono alcune cose della loro breve amicizia, della 500 bianca, erano giovani davvero, per il resto della sua vita Fellini non guido', e della casa di produzione affidata a Fellini che fece molti guai. Ma  soprattutto si racconta di  Ernst Bernhard che fu lo psicoanalista di entrambi. Si dice che il film Giulietta degli Spiriti (ed in effetti la sceneggiatura lo riporta, ma i titoli di testa e coda no) fosse dedicata proprio al suo psicoanalista e vederlo ne da' conferma a chiunque abbia passato un poco di tempo da quelle parti ... Non sarebbe dunque Otto e mezzo il vero film della psicoanalisi, ma solo di una fase, la fase dello stappo, ma Giulietta, dove in effetti si racconta un'intimita' realista alla biografia almeno sentimentale di Fellini, e dove alla fine si apre una porticina proprio sull'inconscio che porta alla (propria) liberta' ... 



Amedeo Caruso: – Lei è stato fra i primi artisti ed intellettuali a conoscere e frequentare Ernst Bernhard. Vuole parlarmene?

Vittorio De Seta: – Lo conobbi nel ’58. Avevo un fratello maggiore, Emanuele che tra il ’56 e il ’58, fu incarcerato e processato per reati di droga. Piuttosto ingiustamente. Ne uscì psicologicamente malconcio. Era instabile, aveva subito traumi in guerra. Lo ospitai per mesi. Uno psicologo incaricato dal tribunale suggerì una psicoterapia. Bernhard venne a casa mia, a Roma, all’Aventino. Sconsigliò un’analisi. La “psicoanalisi” era considerata allora, qui da noi, una scienza esoterica, scientificamente dubbia, tenuta in poco conto, osteggiata dalla Chiesa, dal partito comunista. Tuttavia quel dottore mi colpì. Avevo anch’io problemi psicologici.

Entrò allora in analisi con Bernhard?
Si, analizzavamo i sogni, parlavamo. Cosa insolita, prese in cura anche mia moglie. Ricordo che un giorno, in un momento di tensione, andammo da lui, per aiuto. Ci ricevette senza quasi parlare, preparò un thè e quando tutto fu pronto ci guardammo, con mia moglie: ogni contrasto era svanito. Questo era Bernhard. Faceva in modo che alle conclusioni si arrivasse da soli. Nel 1960 m’incoraggiò, mi “autorizzò” a fare Banditi a Orgosolo. Interrompemmo l’analisi per un anno.

È noto che è stato proprio lei a far conoscere Bernhard a Fellini. Com’era il suo rapporto con l’autore de La dolce vita?
Dopo il successo di quel film, il produttore, Rizzoli, finanziò la “Federiz”, una casa di distribuzione, affidata a Fellini, con l’intento di favorire il cinema d’autore. Aprirono una sede sontuosa in via della Croce. Ma non funzionò. Fellini, a causa del suo genio, particolare, non riusciva a badare al lavoro degli altri. Non aveva la pasta critica, cinefila, di un Pasolini, un Truffaut, uno Scorsese. Fra l’altro aveva un collaboratore, regista anche lui, al quale non andava bene niente. In poco tempo riuscirono a bocciare Il posto di Ermanno Olmi, Banditi a Orgosolo, già fatti, e Accattone, di Pasolini, pronto per le riprese. Ciononostante diventammo amici. Un giorno eravamo nella sua “500” bianca – che decisamente ci stava stretta, eravamo grossi tutti e due – in un piccolo largo, sopra il Tritone. Ci mettemmo a parlare e lui diede fondo al suo malessere, proprio come si fa con le persone conosciute da poco. Davanti a noi si apriva la prospettiva accattivante di via Gregoriana, dove abitava Bernhard. Un segno del destino? Ricordo come fosse adesso. Mi venne spontaneo dirgli: “Perché non vai da Bernhard?”. 
Ci andò in capo a qualche giorno.

Forse “Otto e mezzo” ebbe inizio proprio lì…
Non c’è dubbio, l’analisi ha avuto un effetto determinante su lui. In seguito ebbi tempo di riflettere. Con La dolce vita, aveva tirato fuori tanti contenuti inconsci e se li era trovati davanti, ancora segreti, dolorosi, insidiosi. Per questo stava male.

Vi siete frequentati in seguito,  avete avuto modo di parlare del vostro comune analista?
Questo no, sarebbe stato imbarazzante. Non ci siamo quasi più frequentati perché non riesco a coltivare le amicizie. Non sono mai andato a Fregene. Fellini era un incanto, ti avvolgeva d’attenzione, simpatia, affetto. Poi, da quel momento, tutti e due lavorammo ad un film d’autoanalisi. Non ce lo siamo mai detto. Ci siamo persi di vista.

Sente di aver creato un film – Un uomo a metà – che rappresenta in un certo senso l’ombra di “Otto e mezzo”?
Oddio, che s’intende per “ombra”? Lo diciamo in senso junghiano? Certo che il mio film è stato l’ombra dell’altro, nel senso che Otto e mezzo ha riscosso un successo mondiale, visto da milioni di persone, vinto premi, riconoscimenti, mentre Un uomo a metà è stato distrutto dalla critica, apparso fugacemente nelle sale, insomma, ricoperto d’obbrobrio. Solo Pasolini e Moravia e pochi altri l’hanno sostenuto. Tuttavia a distanza di 40 anni viene ancora proposto. L’anno scorso l’ho rivisto negli Stati Uniti. Ci saranno state 500 persone, (e lì quasi tutte hanno fatto l’analisi), ma alla fine, mi è sembrato, ha suscitato ancora imbarazzo, disagio. È un film casto, eppure in Francia, nel ’67, la censura l’ha vietato ai minori di 18 anni. Che dire? Mi piacerebbe parlarne con Fellini. Certamente mi aiuterebbe a capire. Ma non ha molto senso chiedere a un autore un giudizio sulla sua opera, su quella degli altri. Un film è un tessuto fitto di sentimenti, pensieri, intuizioni. Perché tentare di sezionarlo col bisturi della cosiddetta “ragione”? Vorrei dire solo due cose: Un uomo a metà non è consolatorio e – come gli altri miei lavori – è un “film della realtà”, sia pure psichica.





Sono passati molti anni, cosa le è rimasto, quanto ha influito sull’uomo, sul regista De Seta, l’esperienza psicoanalitica? Pensa che sia stata decisiva per il suo percorso umano e professionale? Crede che il suo ultimo film, Lettere dal Sahara, risenta del lavoro con Bernhard?
Certo, l’influenza della psicanalisi è stata decisiva. Mi ha tirato fuori dal marxismo, dal materialismo. Con l’influenza junghiana ho riscoperto il senso del mistero, mi sono avvicinato alla religione. Mi è sembrato di tornare alla fede. Ma non ero soddisfatto, c’era qualcosa che non andava, non riuscivo a rinunciare alla ragione. Infine sono stato aiutato in modo decisivo dai saggi morali e religiosi di Tolstoj. Vede, è stato un percorso continuo. In sostanza non ho fatto i miei film dopo aver capito le cose, li ho fatti per comprenderle. Non mi sono mai specializzato. I film più che un fine sono stati un mezzo, (per questo sono pochi e diversi tra loro). Ma non vorrei prendermi troppo sul serio. È per dire che proprio il dinamismo, il coinvolgimento continuo, in prima persona, mi hanno impedito di naufragare nel nichilismo. Certo che il mio ultimo film Lettere dal Sahara risente del lavoro con Bernhard. Lui ha segnato la mia vita, in modo decisivo.
Che rapporto ha oggi con la sua vita onirica?
Non sogno più, o almeno non ricordo i sogni. Giorni fa finalmente ne ho fatto uno. L’ho trascritto ma non ho tentato di interpretarlo, come facevo una volta. Mi dispiace.

 
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La gloria di Giulietta

Elenco qui le biografie di Fellini, ufficiali, storicizzato, dalle istituzioni, dal tempo, dalle memoria. La gloria ... ovvero la memoria.

Qui quella de  l'enciclopedia Treccani.


Qui quella della prestigiosa Britannica.




Qui Wikipedia in italiano (nella barra laterale tutte le altre lingue del mondo, compreso arabo, africanen, sloveno turco e sardo).


  Qui quella francese, alla voce figure celebri.





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Nella foto Giulietta Masina, moglie e attrice.




Fulminava calabroni, e vabbeh

«Ed eccoli al parco del Valentino, Rol e Fellini, in un pomeriggio sonnolento. Contrariamente al solito, Rol è malinconico, parla poco, insegue certi suoi sconosciuti pensieri. Si siedono in silenzio su una panchina. 


Più in là, seduta a un’altra panchina, una nurse dormicchia con dinanzi la carrozzella del bambino. Sopra la carrozzella si mette a girare un grosso 
calabrone.


 “Guarda là” dice Fellini “bisogna andare a cacciare via quella bestiaccia”. 
“No, non occorre” risponde Rol, e tende la mano destra in direzione dell’insetto. Uno schiocco di dita, e il calabrone cade a piombo, fulminato secco. 
“Ah, mi dispiace”, deplora l’uomo misterioso e affascinante. 
“Mi dispiace. Questo non dovevo fartelo vedere!”».




Il resto qui.




(da Buzzati, D., "Fellini per il nuovo film ha fatto incontri paurosi",  Corriere della Sera, 06/08/1965, p. 3. Sarebbe bello trovare queste registrazioni, che tanto sono incuriosita che troverete questo brano in altri punti dell'archivio, mi scuso per le ripetizioni). 
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La nostra Chaplin

"... Insisto a dire, come vent'anni fa, che se la storia di Giulietta con il marito fosse stata più concentrata, meno distratta da elementi esteriori, da tutti quei costumi, da tanta psicoanalisi, sarebbe stata capita dal più grande pubblico. Perché è in ballo un problema come il matrimonio, che riguarda tutti. E la liberazione della donna, tirata fuori ben prima che se ne parlasse tanto..."




Frasi di GIulietta Masina, su Federico Fellini (che si sarebbe lui stesso fatto distrarre) Giulietta degli Spiriti.  

Giulietta 
è definita "female Chaplin", 

"Chaplin femme",
 "weiblicherChaplin", "Chaplin mujer" dalla stampa dell'epoca. 

Un'icona internazionale, un ruolo, che anche la cristallizzo', e professionalmente un poco anche la distrusse, nonstante l'Oscar. 

La relazione tra Gelsomina, i clown e Chaplin, non viene mai esplicitamente dichiarata da Fellini, ma trovate moltissimi accenni, e anche profondi e cangianti a questi temi, navigando nelle altre paginette di questo lavoro.  A ripensarci oggi mi sta molto simpatica.






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Shhhhhhh!




"Tutta la mia vita è piena di gente che parla, parla, parla, andatevene! Fuori tutti di qui!"




Qui uno dei progetti piu' belli trovati cercando in questo anno di ricerche in Rete e navigate a vista: viene realizzato all'estero, con le locandine internazionali del film. 
Bravi. 






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Uno strano pellegrinaggio

Roma, agosto 1965






 
Federico Fellini è attualmente in Italia la persona più carica di misteri. Per il suo nuovo film, Giulietta degli spiriti, Fellini ha girato penisola e isole per oltre due mesi visitando i più strani o addirittura inverosimili personaggi, maghi, indovini, streghe, invasati, medium, astrologi, operatori metapsichici, depositari di occulte potestà, ne ha fatto una scorpacciata, ne è rimasto saturo.


Non è che volesse utilizzare questi tipi per il suo film. Giulietta degli spiriti non è un documentario di prodigi tradotti in chiave fantastica. È una favola inventata di sana pianta nella vicenda, nei personaggi e nell'ambiente. Di tutti i maghi interpellati, compare in carne ed ossa soltanto Genius (pronuncia "ginius" all'inglese) lo sconcertante e pittoresco indovino di Roma che per il modo di vestire e di atteggiarsi ricorda il sarto Schubert. Il pellegrinaggio è servito a Fellini soltanto come preparazione psicologica indiretta. Il contatto con quelle creature in certo modo dava impulso alla carica magica che già Fellini aveva dentro di sé, così come in certi scrittori la musica serve a promuovere le idee. E a giudicare dai risultati il sistema è stato ottimo. In Giulietta degli spiriti, che Fellini mi ha fatto vedere, il clima di sortilegio, di inquietudine, di attesa, non viene mai meno, con una varietà abbacinante di motivi e fantasmagorie. Fellini però ne parla con cautela, cercando di minimizzare la sua impresa. Va da sé che il regista ha una grande fiducia in sé, altrimenti non oserebbe mai tentare film come questo. Ma poi, quando ne discorre, entra in gioco il suo istintivo understatement. La classe, anche come uomo, è rivelata subito da questa disarmante quanto spontanea semplicità. Un altro autorevole esempio a conferma che il talento e il darsi importanza non possono andare d'accordo.
Ora, fra tanti personaggi dell'Italia magica - gli chiedo - chi gli ha fatto più impressione? La maggioranza, anche se si trattava di fenomeni notevoli, non aveva niente di eccezionale. I soliti tavolini semoventi, le solite decifrazioni chiromantiche, le solite letture delle carte, le solite interpretazioni degli astri, le solite operazioni taumaturgiche; con risultati spesso curiosi o addirittura impressionanti. Nulla però che si staccasse dal classico repertorio.
Molti di questi maghi, o sedicenti maghi, pareva avessero smarrito ogni personalità, come se fossero posseduti da un potere estraneo a loro; risultavano quindi alquanto stolidi, o assolutamente infantili, o inesistenti come creature umane. Agivano come automi, non tentando neppure una interpretazione di ciò che facevano.
Comunque, Fellini mi cita Pasqualina Pezzolla, di Porto Civitanova, che riesce a "vedere" l'interno del corpo umano quasi i visceri fossero completamente scoperchiati ed esposti alla luce. Ed è quindi in grado di fare delle diagnosi di una precisione tremenda. "Sembra un Macario vestito da donna" racconta Fellini. "È una ex-contadina, priva di studi ma dotata di un notevole orecchio; a espressioni rozze e popolaresche mescola una terminologia medica d'accatto che coi clienti le conferisce un certo tono. Per farsi visitare vengono anche da lontanissimo, intorno alla sua casa c'è sempre una folla che aspetta, bivaccano perfino nella strada per non perdere il turno. Come fa a visitare i malati? Pasqualina siede, fissando il cliente, con respinti sempre più affannosi e contratti. Cade insomma in una specie di lieve trance. La si vede trasformarsi, e dalla sua faccia sembra uscire un altro volto più aguzzo. Intanto tiene una mano a visiera sopra gli occhi, come per ripararsi dalla luce. Poi si alza in piedi. Biascica e parlotta tra sé forse delle formule magiche. Si risiede. Ha due tre violenti scossoni. Sorride. È pronta. Comincia a parlare: vedo lo stomaco un po' spostato in basso, vedo tre calcoli uno grosso e due piccoli nel sacchetto della bile... Tale e quale che se invece degli sguardi avesse i raggi X."



Mi parla a lungo anche di "zio Nardu", un bizzarro vecchio che diventava cavallo. Abitava in una povera bicocca fuori Nuoro. Fellini ci andò accompagnato da un pretino in fama di buon esorcista. Arrivati alla casa di zio Nardu, dovettero aspettare due ore perché lui non voleva aprire. Alla fine si spalancò la porta e zio Nardu apparve, un vecchietto di settant'anni, all'apparenza niente di straordinario. Come vide il prete, si fece il segno della croce. Salutò in tono piuttosto servile. Subito il pretino lo redarguì severamente: "Ti vuoi convertire finalmente? la devi smettere di trasformarti in bestia! Altrimenti finirai all'inferno..." E lui diceva di sì, era pentito, prometteva di non farlo più, lacrime gli colavano dagli occhi. A questo punto intervenne Fellini; il pretino, continuando così, gli avrebbe rovinato tutto quanto. "Sì, zio Nardu, tu devi convertirti" disse il regista. "Sono venuto apposta da Roma per parlare con te. Ma, per dimostrarti la sua benevolenza, la Chiesa ti dà il permesso di diventare bestia ancora una volta." A quelle parole zio Nardu si rianimò, fece una grande risata, poi si mise a parlare velocemente, non si capiva una parola, sembrava recitasse una filastrocca di nomi messi insieme senza nesso


All'improvviso cominciò a nitrire, non a emettere suoni, simili a nitriti, ma a nitrire veramente come un cavallo. Ben presto avvenne una metamorfosi mostruosa. La faccia divenne un muso, il muso si allungò a vista d'occhio assumendo fattezze equine; gli occhi si ingrandirono, divennero interamente neri e lucidissimi, appunto come gli occhi dei cavalli, le orecchie si spostarono in alto, così da sporgere dalla sommità del capo. Perfino il corpo, sembrò a Fellini, acquistava un certo che di cavallino. Allora, sempre cacciando altissimi nitriti di gioia, l'uomo-cavallo cominciò a scalciare furiosamente. E il pretino a recitare le formule sacre dell'esorcismo. Fino a che l'altro si quietò e nel giro di pochi secondi riacquistò sembianze umane.
Al termine dell'inusitata scena, Fellini si trattenne a discorrere con zio Nardu. "Spiegami un po'" gli chiese: "perché ti piace fare il cavallo?". "Ma il cavallo è il più buono, è il più onesto degli uomini" rispose il vecchio con entusiasmo. "Non c'è niente di più bello di un cavallo. Sì, sì, io sono un cavallo." Zio Nardu è morto recentemente, del tutto felice perché nella suprema agonia aveva avuto una delle sue crisi, tramutandosi in destriero. E i suoi ultimi rantoli furono nitriti. Un matto, insomma, ma fuori della norma dei matti. Del resto, mi ha fatto notare Fellini, la pazzia in certi casi è "materializzante" cioè l'uomo finisce per assomigliare alla persona o alla cosa in cui si illude di essere trasformato. Così c'è il pazzo che può assomigliare a Napoleone, il pazzo che assume le forme di un uccello e così via.

"Ma il personaggio di gran lunga più interessante" racconta Fellini "che sta a sé, completamente fuori di questa galleria di fenomeni più o meno patologici, il personaggio portentoso è il dottor Gustavo Rol, di Torino. Anche lei certo ne ha già sentito parlare. Non si tratta di un "mago" più dotato degli altri. È un signore civilissimo, colto, spiritualmente raffinato, che ha fatto l'università, dipinge, si è dedicato per anni all'antiquariato. Ma dispone di tali poteri che non si capisce come non sia famoso in tutto il mondo. Chissà, forse non è ancora venuto il suo momento."Quello che Rol sa fare è pauroso. Chi assiste prova la sensazione di un uomo che sprofonda in un abisso marino senza scafandro. È la testimonianza fascinosa e provocatoria di una trascendenza. Se non si resta terrorizzati è soltanto per il suo modo gioviale e scherzoso un po' da Fra Ginepro, per l'atmosfera salutare che si sprigiona da lui. Del resto egli stesso, prima degli sperimenti, cerca, con opportuni avvertimenti, di creare un limite alla meraviglia, altrimenti si potrebbe rimanerne schiantati."



Del prodigioso mondo in cui vive Gustavo Rol, Fellini mi ha parlato a lungo, senza un dubbio, senza una riserva. Ecco quattro episodi esemplari. Erano seduti, Fellini e Rol, in una sala dell'albergo Principe di Piemonte, a Torino. Accanto a loro un tavolino con sopra un grosso calamaio d'argento. "Adesso provo un esperimento" disse Rol. "Guarda però che non mi riesce sempre. Vedi quel calamaio? Ti prego tienilo d'occhio." Fellini fissò il calamaio. Subito ebbe la sensazione che "qualcosa succedesse dentro di lui, qualcosa di obliquo, come un malessere lucido". 
A un tratto, mentre continuava a fissare il calamaio gli "viene a fuoco" il piano del tavolino, con eccezionale evidenza, ma senza più il calamaio. Sotto i suoi occhi il calamaio era sparito. E Rol non si era mosso dalla poltrona, non aveva mosso le mani.

" Il calamaio era sparito" spiega Fellini. "Si trattava però come di un'eco. L'operazione, come dire?, era avvenuta su di un altro piano, io ne percepivo soltanto una rifrazione." Rol era sudatissimo, quasi uscisse da un lungo e spossante sforzo. Ma scherzava: "Adesso mi arresteranno come ladro. Adesso come facciamo? Riuscirò a far tornare il calamaio? Quel signore laggiù ci sta guardando. Lo conosci tu quel signore laggiù in fondo?". Fellini si voltò a guardare. Non c'era nessun signore. Riportò gli sguardi al tavolino. Il calamaio era tornato."Come può fare cose simili? Da quello che ho vagamente intuito, Rol deve compiere una serie di operazioni mentali in cui crea un certo ordine che si traduce in realtà fisica. Chissà, si direbbe che conosca la famosa legge di Einstein per cui la materia può trasformarsi in energia e viceversa; solo che lui la realizza sul piano mentale." Un altro prodigio avvenne in un ristorante, pure a Torino. Avevano finito di pranzare, era già stato pagato il conto. "Andiamo?" propose Fellini. "Andiamo pure" rispose Rol. Fellini fece per avviarsi all'uscita ma si accorse che Rol stava seduto. "Non ti alzi?" gli chiese. "Ma io sono già alzato" fece Rol. "Io sono in piedi." Fellini guardò meglio: Rol era alzato, infatti, ma aveva la statura di un nano. Il dottor Gustavo Rol, che sfiora il metro e ottanta, non era più alto di un bambino di dieci anni. Qualcosa di folle, di allucinante: come Alice nel paese delle meraviglie. "Su, andiamo, andiamo" fece Rol a Fellini annichilito. Ma a Fellini mancò di nuovo il fiato; senza che egli avesse potuto percepire il mutamento, Rol di colpo si era trasformato in un gigante, stava accanto a lui come un cipresso, lo sovrastava di almeno una spanna. Ed eccoli al parco del Valentino, Rol e Fellini, in un pomeriggio sonnolento. Contrariamente al solito, Rol è malinconico, parla poco, insegue certi suoi sconosciuti pensieri. Si siedono in silenzio su una panchina. Più in là, seduta a un'altra panchina, una nurse dormicchia con dinanzi la carrozzella del bambino. Sopra la carrozzella si mette a girare un grosso calabrone. "Guarda là" dice Fellini "bisogna andare a cacciare via quella bestiaccia" "No, non occorre" risponde Rol, e tende la mano destra in direzione dell'insetto. Uno schiocco di dita, e il calabrone cade a piombo, fulminato secco. "Ah, mi dispiace" deplora l'uomo misterioso e affascinante. "Mi dispiace. Questo non dovevo fartelo vedere!"




Quarto caso. Per avere disobbedito, Fellini stette male, per due giorni non riuscì né a mangiare né a dormire. "Mi fa scegliere una carta da un mazzo. Era, mi ricordo, il sei di fiori. Prendila in mano, mi dice, tienila stretta sul tuo petto e non guardarla; ora, in che carta vuoi che la trasformi? Io scelgo a caso. Nel dieci di cuori, gli dico. Mi raccomando, ripete lui, tienila bene stretta e non guardarla. Lo vedo concentrarsi, fissare con intensità spasmodica la mia mano che tiene la carta. Intanto io penso: perché mai non devo guardare? Sì, me lo ha proibito, ma il tono non era troppo severo. Che me lo abbia detto apposta per indurmi a trasgredire? Insomma, non resisto alla tentazione. Stacco un po' la carta dal petto e guardo. E allora ho visto... ho visto una cosa orrenda che le parole non possono dire... la materia che si disgregava, una poltiglia grigiastra e acquosa che si decomponeva palpitando, un amalgama ributtante in cui i segni neri dei fiori si disfacevano e venivano delle venature rosse... A questo punto ho sentito una mano che mi prendeva lo stomaco e me lo rovesciava come un guanto. Una inesprimibile nausea... E poi mi sono trovato nella mano il dieci di cuori."

Per ultimo ho chiesto a Fellini: "Di tutte queste esperienze, di tutte queste stregonerie, c'è stata qualche ripercussione nella realizzazione del film?"

"È difficile rispondere" dice Fellini. "Certo, mi sono trovato di fronte a una quantità di imprevedibili e strane opposizioni, quasi che una forza oscura mi volesse scoraggiare. Cose vaghe, però, forse soltanto mie assurde sensazioni... E poi, a motivo di questo film, alcune amicizie si sono guastate, perdute, distrutte. Si intende, amicizie apparenti, di superficie... Contro la vera amicizia non credo che la magia possa fare molto."



I misteri d'Italia, Oscar Mondadori, 1978, Milanodi Dino Buzzatti, amico, scrittore, fu lui a fargli conoscere il medium Gustavo Rol, personaggio mitologico, torinese, alto borghese,  schivo eppur noto, tanto da essere perfino convocato durante il sequestro Moro, personaggio nella storia d'Italia.

QUALCHE DETTAGLIO PRATICO:   
Su Twitter, Pinterest e Facebook sono aperte delle finestre, anche in inglese anche,  di questo progetto, per proteggere la conoscenza, le fonti, le idee, e fare diplomazia culturale: cercatele, se vi serve, se usate questo lavoro citatelo. 

Qui un marcetta "di Carlotta", composta pare, dal vero Maestro Rota.


La via dell'acqua

È acqua. Quando voglio qualcosa di assolutamente puro, qualcosa di sincero, chiedo sempre l'acqua. C'è tanto bisogno di cose semplici per vivere, di cose che non ne nascondono altre. L'acqua è come uno sguardo che non nasconde nulla. Non abbia paura della verità, la verità ci rende liberi. In fondo, che importa la reazione degli altri? Al mio paese un proverbio dice: “Io sono a me stesso tetto, finestra e focolare; le mie parole sono il mio cibo, i miei pensieri, la mia bevanda: dunque sono felice”.



Un brano tratto dal poco considerato“Giulietta degli spiriti”, un di film Federico Fellini audace da ogni punto di vista, sulla condizione della donna, la prigione del matrimonio ed il ruolo della fantasia e dei fantasmi. In basso c'e' uno spazio per lasciare un messaggio, e farci sapere di essere passati di qui, e per condividere questo post con altri. 



Il film sui bambini







Sono stato in collegio, a Fano. Era un edificio enorme - racconta - con grandi corridoi bui, senza luce elettrica, oppure c'era una lampadina ogni tanto: probabilmente essere rimasto intere nottate sveglio in questi enormi camerini veramente funebri, così, ascoltando il 
fruscio di una tonaca di qualche sorvegliante. 


Ho in testa di fare una storia proprio sui bambini, una volta o l'altra. Quando farò questa storia di bambini, questo collegio credo avrà una parte particolarmente importante.

«Poi ho fatto gli studi a Rimini, ho fatto il ginnasio, ho fatto il liceo. Naturalmente non ero uno studente così esemplare, e quel periodo di vita è abbastanza simile a quello che ho raccontato ne I vitelloni, con queste passeggiate, l'attesa dell'estate, l'inverno. Perché in Italia, la provincia, durante l'inverno non è soltanto così disperata e vuota e immobile come sembra, è un'immobilità sotto la quale cresce qualcosa, cioè fermenta qualche cosa. 

In definitva, credo moltissimo agli artisti che vengono dalla provincia, perché la loro formazione culturale si svolge veramente sotto il segno della fantasia, cioè sotto il segno di qualche cosa che, costretta dal torpore e dall'immobilità, si sviluppa per una via fantastica che è la ricchezza più grossa che un artista può desiderare».


Ed oggi, che i bambini non si annoiano piu', che vanno sempre in giro, che hanno gli occhi saturi di immagini confezionate come merendine? Oggi c'e' da aver paura per l'arte ma anche per l'umano. 






Il brano sopra pubblicato e' stato dall'intervista inedita a André Delvaux,  trascritta dalla rivista di studi felliniani Amarcord, realizzata dalla Fondazione. Mentre la fotografie sono di Amarcord e Giulietta degli SPIRITI, dove alla fine l'infanzia la salva. Questo film non lo fece mai. Ma ci penso'. Ricordo conversazioni, e si capiva che voleva capire, da dove venivi tu, bambina, gnoma, nana, muta, con tutta quella intelligenza, quella luce, quel sapere: son quasi certa che parte delle domande del mistero siano  nate dall'arte.Scrisse di questo, che era il film impossibile da fare, perche' i bambini appunto guardano, tacciono, e in quegli sguardi c'e' tutto un mondo, ma e' impossibile, non si puo' fare, diceva. 


QUALCHE DETTAGLIO PRATICO PER ANDARE AVANTI O PERDERVI CON GIOIA: 

Vedrete che ho trascurato quasi interamente pettegolezzi, e letture agiografiche e tutta quella narrativa marketing o delle fazioni della battaglia politica, a meno che non potesse essere utile a fare un ritratto dell'epoca, inoltre ho dato molto spazio alle cose minori, silenziose, come ad esempio Nino Rota, senza la cui presenza l'arte di Fellini non sarebbe universalmente nota e riconoscibile, per il suo suono,  come e'. 
Dove ho potuto ho citato la fonte. Le immagini non sono mai o quasi mai legate ai testi, per motivi di stile e per le stesse ragioni invece quando uscite dal sito dovete ritornarvi da voi. Qualche volta i brani sono in in lingua originale, soprattuto documenti e recensioni, e lo indico sempre. Le pochissime cose oltre a questa che ho scritto io medesima, e non sono pensieri di Fellini, o di interesse sulla sua storia nella storia culturale del paese o sulla sua poetica, di solito di altri artisti o suo cari amici, viene indicato anche nelle tag, come "la nana di fellini". 

Su Twitter, Pinterest e Facebook nel tempo, per motivi diversi, ho creato delle piccole vetrine, in inglese anche,  di questo progetto, che spero possa scuotere soprattutto il mondo della cultura e delle arti, e ispirarci. Siate gentili. 



Qui un marcetta "di Carlotta", composta pare, dal vero Maestro Rota. Cose bellissime. Grande gratitudine ai maestri e le maestre. Love.