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Dissimili e vicini



Sul terreno della fama, sembra quasi una fatalità, Fellini e Antonioni si rincorrono da quasi mezzo secolo. 

E l'amichevole sfida continua anche al di là della morte: il 20 gennaio, giorno in cui avrebbe compiuto 75 anni, Federico è stato festeggiato con all'EUR della più grande mostra mai dedicata a un cineasta e con lo scoprimento di una lapide nella via Veneto da lui immortalata; ma Michelangelo (classe 1912, tuttora attivo sul set) gli ha prontamente rubato la prima pagina dei giornali con dell'assegnazione dell'Oscar alla carriera. 



Scartabellando in archivio ritrovo una mia doppia intervista del quando Fellini stava preparando La dolce vita e Antonioni L'avventura: 
"Sono i due registi più interessanti del momento, gli unici che hanno detto una parola nuova dopo le grandi prove della triade Rossellini De Sica Visconti: Antonioni nella dimensione di un rinnovato psicologismo borghese, Fellini in quella della fantasia picaresca. 


Antonioni si confessa intellettuale con una punta d'orgoglio, Fellini si dichiara un'ignoranza enorme' con una punta di civetteria. L'uno viene dalla critica cinematografica, l'altro dal 'Marc'Aurelio'; l'uno ha letto tutti i libri, l'altro pochissimi; l'uno segue la logica, l'altro l'istinto; l'uno ama i problemi, l'altro il racconto. Antonioni ha l'aria di mangiare poco, Fellini divora maccheroni al sugoNon sappiamo quanto siano amici, quanto possono andare d'accordo: certo è che si stimano molto, pur sentendosi diversi...". 

Nei decenni che seguirono le cose cambiarono un po' (Fellini,tanto per dirne una, prese a mangiare meno e a leggere di più), ma la competitività rimase; e fra i cinefili perdurò (e si potrebbe perdurò (e si potrebbe sostenere che dura ancora) la spartizione fra felliniani e antonioniani. 


Il bello è che il primo film firmato dal solo Fellini, Lo sceicco bianco, doveva farlo Antonioni e nasce da un soggetto di quest'ultimo: dell'incidente Michelangelo promise un giorno di raccontarmi "la vera storia", poi l'occasione saltò e forse il mistero resterà tale. Ricordo invece quello che mi disse il regista di L'avventura reduce nel '60 da Cannes, dove il suo capolavoro era stato dapprima accolto a fischi e poi entusiasticamente rivalutato fino a strappare uno dei premi minori; ma la giuria, presieduta da Simeon, aveva assegnato la Palma d'oro a La dolce vita"Ti assicuro che se il festival durava ancora una settimana - asserì sornione il neo premio Oscar - vincevo io". 




22 gennaio 1995, 
tratto da FELLINI DEL GIORNO DOPO, di Tullio Kezich, editore Guaraldi. Sull'anniversario che offre al cronista questa occasione di bella scrittura e riflessione, qualche tempo dopo, la stampa inglese torna con un articolo, dichiarando Antonioni, il genio dimenticato. QUI

In basso ci sta uno spazio vuoto, predisposto come un fumetto, per scrivere pensieri o sentimenti, oltre ai pulsanti per condividere questo post con chi vi sta simpatico: se lascerete un messaggio farete sapere che anche voi siete passati da qui. Proteggete il lavoro dei poeti, delle donne, condivide la conoscenza. 



Topor e gli altri





Il regista Khrzhanovskij ha animato i disegni di Fellini, compagni di viaggio del regista da tutta la vita, sia mappa della sua immaginazione che strumento di lavoro, e divertimento e professione in gioventù nella rivista Marco Aurelio: qui trovate il suo piccolo documentario molto artistico.

Fellini disegno sempre i suoi film, e dopo la terapia anche i suoi sogni: con il passare del tempo e la mole di lavoro, per gli storyboard si lascia aiutare dal surrelista Roland Topor (nella immagine) e dal pittore australiano Albert Ceen

Ispirato da film mai realizzati regala tavole anche per l'amico Milo Manara (che verrano pubblicate nel 1989, sul Corriere della Sera).



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Funny Face Shop

  
"Nel periodo caotico che seguì la liberazione di Roma il cinema non produceva, i giornali non c'erano più, la radio era nelle mani degli alleati. Con alcuni amici del Marc'Aurelio aprimmo una  bottega della caricatura. Si chiamava "Funny Face Shop: profiles, portraits, caricatures". Facevamo ritratti, caricature e disegni per i soldati americani appena sbarcati a Roma. 

Avevamo inventato una serie di vignette, di situazioni tipiche: un soldato americano al Colosseo che uccideva un leone, oppure a Napoli su una barchetta che pescava una sirena, o mentre sorreggeva la torre di Pisa con una mano. 

Ogni situazione veniva riprodotta in cinquanta, cento esemplari dove la testina veniva sempre lasciata in bianco. Le vignette erano raccolte tutte insieme in un grande album che veniva mostrato ai soldati (...). Una sera il locale era molto affollato, c'era sempre un'atmosfera da saloon, e all'impovviso in mezzo a tante divise dei soldati, ho visto uno in borghese, la faccia pallidina, un mentino aguzzo. Era Rosselini. Lo avevo conosciuto appena prima della guerra, all'Aci Film, una società di produzione di Mussolini: fece segno che mi voleva parlare. Si avvicinò lentamente, e si mise alle mie spalle. Io stavo ritraendo un soldato cinese. Mi chiese se volevo collaborare alla sceneggiatura sulla vita di Don Morosini. Io ero molto occupato colla bottega della faccia buffa, inoltre il cinema allora mi pareva una cosa remota, a noi italiani: ora che stavano ritornando i film di Gary Cooper e chissà quante Harlow (...). 




Il film sulla vita, di Don Morosini era Roma città aperta. Sorpresa del neorealismo e risposta al western all'americana. 


Questo archivio funziona come una mappa mentale, per associazioni libere, cercate da soli: le immagini solitamente non sono legate ai testi, mentre sempre i link esterni restano esterni, per rispetto della cultura digitale, che questo piccolo spazio testimonia; poi lasciate una traccia del vostro passaggio qui, se volete. 






Se Minculpop telefonava




«Finito il liceo già a Rimini collaboravo con  disegnetti alla Domenica del Corriere e ad alcuni giornaletti locali. Ma soprattutto, come tanti, ero affascinato dal Marc'Aurelio che arrivava il mercoledì e il sabato a Rimini. Era un giornale contestatissimo dal prete. Mi ricordo che una volta, durante il sermone domenicale, tirò fuon dal pulpito, come un prestigiatore, un foglio che era poi il Marc’Aurelio e disse con voce grave: “So che si continua a leggere questo giornalaccio. Adesso vi faccio vedere io che che cosa si deve fare”. Ci fu un momento di sospensione perché non si capiva beneche cosa volesse mostrarci. Poi. Don Balosa (in realtà si chiamava Baravelli, ma lo chiamavamo Don Balosa. che in romagnolo vuol dire castagna bollita, per via delle sueguancione color seppia) lo strappò con le sue grandi manone. E, dopo un lungo silenzio,ne fece una gran palla che, cosa insolita per un prete sul pulpito, colpì con un pugno e fece rotolare tra i banchi».
«Io al Marc’Aurelio cominciai a collaborare quando venni a Roma, nel 1938. Fu la prima tappa: segretario di redazione e poi redattore. Era un settimanale molto popolare, anche un po’ fastidioso per il regime fascista. Non una vera e propria fronda, ma una sottile contestazione. Ricordo che ogni settimana il direttore veniva convocato al Minculpop e, quando tornava, ci chiamava tutti a rapporto, leggendoci i commenti raccolti: una cosa era dispiaciuta a Starace, un’altra a Pavolini, un’altra ancora aveva fatto addirittura incazzare il Duce. E noi, lì in piedi, che non si capiva se saremmo stati licenziati o peggio. Ma in quella redazione c’erano anche degli antifascisti, come Tommaso Smith, che sarebbe diventato poi il direttore di Paese Sera; e alcuni redattori che venivano da un altro famoso foglio satirico, il Becco Giallo, come Galantara che fu minacciato di essere mandato al confino. Io, allora, non capivo neanche che si potesse contestare Mussolini. Me lo ritrovavo sui quaderni di scuola dall’età di 10 anni: c’erano le immagini di Gesù, del Papa, del Re e di Mussolini, sembrava un personaggio immortale. Stavo lì attratto soprattutto dai disegnatori: Mosca, il grande Attalo, Merz, Guareschi. Il Marc’Aurelio è stato una scuola, un seminario, una fucina straordinaria anche per il cinema. Ci lavoravano Steno, Scola, Marchesi; moltissimi sceneggiatori e registi»







Questa storia e' quella raccontata 

nel film Che strano chiamarsi Federico, documentario in forma di favola diretto da Ettore Scola, un ricordo / ritratto di Fellini, raccontato dal regista Scola in occasione del ventennale della morte sulla loro giovanile vita romana. Unico omaggio che l'Italia ha prodotto finora, in forma artistica. Sceneggiato dallo stesso Ettore Scola con Paola e Silvia Scola racconta bene l'Italietta in forma di commedia, lieve, ma col Minculpop che telefona al direttore della rivista per criticare le vignette: QUI. Questo archivio fu creato come una mappa mentale, navigate tra le parole, come rabdomanti, che trovate alla destra del vostro schermo, mentre infondo alla pagina potete lasciare un messaggio, nello spazio vuoto come un fumetto, o condividere i post che vi sono piaciuti. Grazie. 




Signor Fellini, lei non mi piace

Con Federico, era chiaro che eravamo degli oggetti e lui manipolava l'attore in tutti i modi, ma io non mi lasciavo manipolare. Non andavamo d'accordo, non eravamo sulla stessa lunghezza d'onda. Era carino, a me era anche abbastanza simpatico, dico "abbastanza", ma non del tutto... Non mi piaceva il suo spirito da "Marc'Aurelio".











Laura Betti, autrice, cantante, attrice, animatrice culturale e molte altre cose raccontate qui. Nella foto il trucco e parrucco per la scena, a cui si riferisce, de La Dolce Vita.