Nell’ufficio di Corso d’Italia, e prima ancora nello studio di via Sistina, Fellini teneva una piccola fotografia appesa sulla parete alle spalle della scrivania, ed era di Bernhard, tra i pochi angeli custodi che vegliavano silenziosi sulla sua vita e sul suo lavoro. Nel terzo cassetto in basso a sinistra dello scrittoio, chiuso a chiave e avvolto in un drappo di seta nera, conservava l’I King, il ‘libro delle mutazioni’, nella prima edizione Astrolabio rilegata in nero, che l’amico terapeuta gli aveva regalato.
Nel suo sfrenato individualismo il regista rifiutava ogni paternità, sosteneva di non avere alcun debito di formazione, neppure con Roberto Rossellini che pure considerava il padre Adamo; e tuttavia ammetteva che se doveva riconoscere un’influenza nella propria vita, l’unica persona importante era stata Ernst Bernhard. E nella sua voce affiorava immutabilmente una impalpabile incrinatura. Sosteneva di averlo conosciuto per un equivoco, telefonando a un numero scritto su un foglietto che gli era venuto tra le dita nella tasca della giacca e credeva appartenesse a una ‘bella signora”. Dall’altra parte del filo gli aveva invece risposto una voce maschile dall’accento tedesco, che l’aveva invitato ad andarlo a trovare nella sua abitazione di via Gregoriana, spiegandogli che non esistono casualità ma coincidenze; e spesso le nostre azioni meno consapevoli ci indicano la strada da seguire. Federico l’aveva ascoltato, ed erano diventati amici.
Non è certo che il regista sia stato in analisi da lui, non nel senso di una frequenza preordinata di metodo freudiano; a quanto pare, s’era trattato piuttosto di un itinerario conoscitivo di impronta junghiana. Federico si recava da Bernhard come un oracolo da consultare.
Tra i quaderni dedicati ai pazienti che il terapeuta custodiva con scrupolo, e che oggi sono conservati in Austria poiché finiti in mano alla sorella di Dora Friedlander, sua seconda moglie, non figurano fascicoli con sopra il nome di Fellini.
Distrutti, scomparsi, mai esistiti?
Può darsi che le loro conversazioni, per un certo periodo assidue (ne esiste traccia nei Diari in cui Dora annotava le confidenze del marito, la sera a letto, prima di addormentarsi), non rivestissero per Bernhard un vero carattere di psicoanalisi, ma rappresentassero piuttosto lo scambio fecondo tra due nature particolarmente creative.
Da quanto potevo dedurre, Fellini non seguiva un rigido programma di appuntamenti, ma ricorreva allo psicologo quando si trovava in stati di incertezza o di difficoltà a prendere decisioni; oppure anche ne cercasse la preziosa consulenza per i film in cui si avventurava nel linguaggio specifico dell’inconscio, come in “Otto e Mezzo” e soprattutto in “Giulietta degli Spiriti” (l’amico morì nello stesso anno di uscita del film, 1965). In ogni caso Ernst Bernhard, anche dopo scomparso, continuò a rappresentare un insostituibile riferimento per tutta la vita; e quando Federico interrogava con religiosa compunzione il libro cinese de responsi, certamente era anche a lui che si rivolgeva.
Ernst Bernhard era stato allievo di Carl Gustav Jung a Zurigo, e il fondatore della Psicologia Analitica quando ne aveva bisogno di appoggiava alle sue approfondite conoscenze astrologiche e chirologiche. Nel 1936 per sfuggire alle leggi razziali di Hitler contro gli ebrei, si era trasferito a Roma; e nella sua abitazione di via Gregoriana, adiacente a Trinità dei Monti, aveva creato assieme a Dora, ancora sua fidanzata, un cenacolo importante di studi esoterici. Ne riferisce ampiamente Luciana Marinangeli in “Risonanze Celesti – L’aiuto dell’astrologia nella cura della psiche”, uscito da Marsilio. L’editore Aragno ha pubblicato, a cura della medesima studiosa, “Lettere a Dora”, l’intero epistolario intercorso tra Ernst e Dora Friedlander nel corso dell’anno in cui lo psicanalista venne assegnato dal regime fascista al campo di internamento di Ferramonti, in Calabria, a 35 Km da Cosenza. Per aggirare il censore, i due corrispondenti si trattavano da cugini affettuosi (sembra che lo fossero molto alla lontana) e non mancavano di evidenziare in testa alle missive i propri crediti accademici, illudendosi che potessero valere come un possibile futuro salvacondotto. Bernhard ne approfittava anche per disseminare abilmente nel testo rassicurazioni sulla propria posizione estranea all’ebraismo, da cui si era distaccato fin dal lontano 1925 abbracciando il cristianesimo.
Ernst era stato prelevato a Roma all’improvviso l’8 giugno del ‘40, due giorni prima dell’entrata in guerra dell’Italia, recluso in un primo tempo nel carcere di Regina Coeli e successivamente internato a Ferramonti, il campo di prigionia allestito alla meno peggio in una zona paludosa e malarica, dove si inviavano a morire i nemici del regime. Dora, l’innamorata che ne aveva condiviso il destino venendo con lui in Italia, era una persona estremamente fragile e per molti versi dipendente psicologicamente dal compagno; al quale era legata oltre che dall’amore anche dagli studi parapsicologici a cui si dedicavano insieme con identica passione. In non poche lettere si comunicano gioie, preoccupazioni e speranze disegnando i ‘glifi’ zodiacali, le quadrature, le congiunzioni. Entrambi interrogano affannosamente il cielo in cerca di presagi e di risposte; ma mentre Dora riversa in ogni investigazione uranica la sua angoscia, Ernst per rincuorarla e sostenerla, cerca sempre di decifrare negli astri un quadro positivo, in cui le difficoltà appaiano piuttosto foriere di cambiamenti a loro favore. Applicava per indole e per apprendimento la visione junghiana, e orientale, del mutamento propizio degli eventi, che tanto conquistò Fellini portato per criscarattere a rendere produttivi i contrasti. Il regista aveva Marte in Bilancia, credo che ciò significhi un’aggressività depurata dall’impeto cieco, più coordinata alla ricerca di un equilibrio anche nella istintiva bellicosità.
Bernhard aveva intravisto motivi di ottimismo nella figura del direttore del campo, il Comandante di Pubblica Sicurezza Paolo Salvatore definito da Renzo De Felice “afascista”; il quale “riuscì a dare alle leggi inique un’interpretazione conciliante mostrandosi leale e rispettoso verso gli internati.”
Intanto Dora, dalla sua adorata Roma che continua a immortalare “in meravigliose fotografie in bianco e nero”, riesce a inviare a Ernst “i cerotti, i francobolli, il chinino, la tiroxina, il paralume di carta, le focacce, il cioccolatino”. Lui l’ha salvata da una tendenza depressiva ereditata dalla famiglia di origine e “con le lettere dal campo riesce a impedirle una deriva psichica più grave”. Lei contemplando una sua foto gli bacia le mani: “Ti ringrazio, ogni ora, sempre e per sempre.” E’ intensamente conquistata da quell’uomo speciale che la Marinangeli descrive “alto e stempiato, dall’aria distinta, lo sguardo attento e benevolo, e una testa curiosa, a uovo.”Dora bussa a ogni possibile porta per liberare Bernhard dal campo di concentramento; ma sarà decisivo l’incontro con il famoso scienziato orientalista Giuseppe Tucci. Ernst l’aveva sognato senza ancora conoscerlo, cinque anni prima a Berlino: si trovava in una caverna attraversata da soldati nemici, chiedeva da mangiare e un militare gli offriva del latte; era “un italiano con un viso di indiano.” Ernst sarà miracolosamente liberato il 14 aprile 1941 e tornerà nella casa di via Gregoriana, rimanendo nascosto in una stanza semi murata, anche grazie alla complicità degli altri inquilini. Non cesserà mai di credere nella Divina Provvidenza, che definisce “la misteriosa Presenza sempre benefica.”
Il 5 maggio 1965, un mese e mezzo prima che Bernhard si spegnesse, Federico è visitato da un sogno premonitore riguardo alla morte dell’amico terapista e le parole che scrive hanno un tono disperato:
« “Amore mio” (sottolineato) dico travolto dalla commozione, vorrei aggiungere altro ma temo che Bernhard possa notare nel mio dolore una sfumatura istrionesca, di compiacimento letterario».
Tre giorni prima della morte dello psicanalista, Federico annota nel libro dei sogni questa “visione ipnagogica”. La data è del 25-6-1965 e il regista chiama Bernhard “mio vero padre”:
«Violentissima sensazione di realtà. Ho udito lo schianto dei vetri. Ho fatto un balzo sul letto con la certezza che veramente qualcuno mi avesse lanciato un mattone (contro il parabrezza della mia auto)
Stavo missando Giulietta degli spiriti. Erano le 10 di mattina, una giornata di piena estate. Mi telefona da fuori Aluigi… – Hai saputo? – – Cosa? – Ieri sera è morto Bernhard! –
Sono corso a casa sua. La moglie sulla porta mi ha detto – Deve vederlo. E’ così bello! –
Sono entrato nello studio e molte cose erano come nel sogno che avevo fatto un mese prima. C’era un giovane vestito di nero, pallidissimo, bello un po’ effeminato, languoroso, funebre come molti giovani del sud. Era Antonio Gambino. Guardavo Bernhard che giaceva sul letto, che pace profonda, che serenità, l’aria attorno era limpida, profumata.
Vorrei poter vivere senza di te, vivere di te di ciò che hai saputo donarmi… Ti debbo moltissimo della mia vita. Ti debbo la possibilità di continuare a vivere con momenti di gioia. Ti devo la scoperta di una nuova dimensione di un nuovo senso di tutto, di una nuova religiosità… Grazie per sempre amico fraterno, mio vero padre. Aiutaci ancora spirito limpido, beato. Pace alla tua anima buona. Ricordati di noi, ti vogliamo tutti un bene dell’anima. Addio addio amico del cuore, santo uomo vero.»
Dopo la scomparsa di Bernhard, Fellini continuò a frequentare la moglie Dora, occasionalmente, in una decina di sedute che si esaurirono nel 1967.
Tramite un calcolo utilizzato dagli astrologi orientali per conoscere la durata della vita di una persona, Ernst già da molti anni aveva stabilito la data della propria morte, con un errore di soli otto giorni.
Chissà cosa il terapista aveva visto nel ‘cielo’ di Federico.
(da Articolo 21, Gianfranco Angelucci, maggio 2019).
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